lunedì 28 settembre 2015

DECORAZIONI E LAVORO



Se fai il colloquio per un posto da dj va bene, ma visto che la nostra è un’azienda seria, con un’etichetta da rispettare, sarò costretto a inventare una scusa per non assumerti, anche se il curriculum è uno dei migliori». A dirlo è il capo del personale di una grossa società finanziaria di Milano. E il soggetto è l’uomo, o la donna, tatuato. In Gran Bretagna dopo alcuni casi di licenziamento di persone con vistosi tatuaggi su mani, collo e piedi si è iniziato a discutere sulla possibilità di parlare o meno di discriminazione. In Italia se ne discute un po’ meno anche se i tatuati sono mezzo milione e la maggior parte sono uomini tra i 16 e i 35. Insomma, chi è nel pieno della propria vita lavorativa.

Nella normativa italiana e europea non esiste nessun articolo che parli di divieto di avere tatuaggi, collegato ad una qualsiasi professione. Con le sole eccezioni di chi appartiene all’esercito o corpi di polizia, carabinieri, finanzia. «Tutti gli altri sono liberi di fare ciò che vogliono del proprio aspetto e qualsiasi causa sarà respinta da un giudice», spiega un avvocato. Ma occhio alle policy aziendali. «Ogni azienda privata è libera di imporre un proprio regolamento, anche in materia di aspetto fisico e decoro, ma anche in questo caso, se il lavoratore dovesse venire licenziato è quasi certo il reintegro da parte del giudice che esamina il caso», spiega l'avvocato, «in generale l’unico accorgimento da tenere è che i tatuaggi non siano offensivi». E per chi lavora nel pubblico, visto che l’ingresso è sulla base di un concorso, non esiste nessuna limitazione. Basta, in teoria, la competenza a passare l’esame.



L’eccezione sono i militari. Una direttiva del luglio 2012 evidenzia proprio come non siano ammessi tatuaggi o piercing per «prevenire e contenere situazioni che possano incidere sul decoro dell’uniforme». Questo vale soprattutto tra i soldati: chi è in missione all’estero non deve essere riconosciuto grazie ai simboli sulla pelle, oppure un tatuaggio che in Italia significherebbe solo una bravata da ragazzini potrebbe acquistare un significato del tutto diverso in un paese straniero, con diversa religione e cultura. In Alto Adige è stato pubblicato un bando per la copertura di sedici posti vacanti nelle diverse sedi del corpo forestale. E all’articolo 2 si legge: «I sovrintendenti sono impiegati in diversi settori, svolgono compiti di polizia e indossano l’uniforme. Sono obbligati a tenere un comportamento adeguato e non è loro consentito avere tatuaggi o piercing inopportuni». Sono esclusi, quindi, coloro che hanno il corpo coperto da «tattooes o orecchini che, per la loro sede e visibilità, siano deturpanti o lascino identificare facilmente la persona». E sopratutto «quei casi che per frequenza o raffigurazione siano indice di personalità particolare».

Hai un tatuaggio? Questo posto non fa per te, il tatuaggio è «indice di personalità abnorme». È capitato questo a un aspirante carabiniere di Genova, Andrea O., escluso da un concorso perché ha tatuati un piccolo geco sulla spalla destra e un angioletto sull’avambraccio sinistro. Lui non si è dato per vinto e ha fatto ricorso. Il Tar della Liguria gli dato ragione, smentendo l’Arma. Nessuna assimilazione si può fare tra un piccolo e inoffensivo tatuaggio e una personalità disturbata. Troppa severità, ha ravvisato il Tar, anche perché nel regolamento del bando di concorso si fa riferimento a tatuaggi deturpanti o tali da rappresentare l’indice di una personalità distorta, ma solo «se risultante da una perizia psichiatrica».
Eppure, non è la prima volta che accade. Tre anni fa una ragazza di Spezia venne scartata da un concorso per agenti di polizia per colpa di una farfalla sulla caviglia destra. Fece ricorso, naturalmente. «In queste cose ci vuole il buon senso — dice il segretario generale del sindacato autonomo di polizia, Sap —. In generale, poliziotti e carabinieri, per la loro peculiare funzione di servizio, devono passare inosservati. Segni visibili non devono esserci, in particolare su viso e mani. I tatuaggi sulle mani, per esempio, hanno spesso una simbologia per la criminalità e quindi la loro inopportunità è evidente. Detto questo io credo che per i tatuaggi su caviglie e gambe, anche se visibili, occorra maggiore tolleranza. Non soltanto per evitare una eccessiva discrezionalità delle commissioni giudicanti ma anche per tutelare le amministrazioni pubbliche da successive sentenze del Tar e del Consiglio di Stato». Ottenere infatti soddisfazione non è difficile a meno che non si abbia stampata una svastica sul collo.



Non c’è una legge che blocchi l’assunzione di una persona tatuata. Al contrario, spiega il coordinatore nazionale del dipartimento per le politiche del lavoro della Cgil, «esiste una recente direttiva europea contro ogni forma di discriminazione nei criteri per l’accesso al mondo del lavoro che vieta espressamente di escludere chiunque per motivi di credo, di opinione, di provenienza e anche di pratiche. Ovvero di scelte personali non offensive nei riguardi degli altri». Il presidente del Codacons Carlo Rienzi, che in passato ha assistito giovani esclusi da concorsi per un tatuaggio, dice che cose del genere «continuano a capitare ma sono sempre più chiaramente abusi. Persino sulla questione dell’altezza il Tar o il Consiglio di Stato tendono a dar ragione alla persona, ammettendo con riserva chi è più basso di quanto richiesto».

«Nella pubblica amministrazione si accede per concorso — interviene Michele Gentile, del dipartimento settori pubblici Cgil —. I regolamenti per i bandi sono nazionali, nessun regolamento di ente locale può infischiarsene dei parametri nazionali». Cambia la faccenda, e non di poco se dal pubblico passiamo al privato. Qui il tatuaggio fa la differenza, eccome. «Ogni azienda ha le sue politiche — dice il presidente dell’associazione direttori del personale —. Ma è chiaro che molto dipende dal ruolo, se si è esposti, se si sta a contatto con i clienti, nel commerciale per esempio, insomma se si rappresenta l’azienda, beh, l’abito fa il monaco».







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