Le stigmate sono tipicamente le piaghe nelle mani, nei piedi e nel costato di Gesù Cristo, provocate dai traumi subiti durante la sua passione; per successiva estensione, indicano lesioni corporali che in particolari soggetti offrono una riproduzione, temporanea o permanente, completa o parziale, delle piaghe di Cristo (o di altre conseguenze della Passione). In ulteriore traslato, con la parola "stigmate" si indicano i segni fisici, o psichici, o sociali, lasciati in individui o collettività da eventi avversi di varia natura, e che in terze persone destano reazioni comunque negative.
I casi noti di stigmatizzati mostrano spesso le cinque Sante Piaghe inflitte a Gesù, secondo i Vangeli, durante la Crocifissione: mani e piedi forati, costato trapassato. Alcuni santi stigmatizzati mostrano anche ferite sul capo simili a quelle causate dalla corona di spine, come S. Rita da Cascia. Altre stigmate riportate includono lacrime o sudore di sangue (riferimento a Lc 22,44), e ferite sulla schiena come da flagellazione.Sono ricordati nella letteratura anche rari casi di stigmate luminose, come ad esempio quelle di S. Caterina de' Ricci., oppure casi di stigmate invisibili, come quelle di S. Maria Faustina Kowalska. Si riportano anche casi di stigmate divenute invisibili a seguito di una espressa preghiera dello stigmatizzato.
Le stigmate mostrano un sanguinamento ricorrente, a tratti assente, spesso presente nel ricevere l'Eucaristia. Le ferite visibili restano fresche e senza infettarsi per lunghi periodi di tempo. In alcuni casi, il sangue emana un profumo noto come "odore di santità".
Le stigmate sono spesso accompagnate anche da estasi mistica, in particolare fra il giovedì ed il venerdì pomeriggio.
Nella teologia e mistica cristiana, il soggetto riceve le stimmate quando entra (per grazia divina, indipendente dalla sua volontà) in uno stato di perfetta unione con Gesù sofferente, fino a identificarsi fisicamente con lui. Si deve notare che la manifestazione visibile delle stimmate sul corpo del soggetto non è l'unico caso affermato dalla dottrina; innumerevoli i casi di stimmate "nascoste" o "invisibili" riconosciute dalla Chiesa e descritti anche nell'agiografia, condizioni mistiche nelle quali il soggetto si sente egualmente unito con Gesù, sente in sé tutte le sue sofferenze e rivive intimamente la sua passione, senza che tutto ciò si manifesti fisicamente sul suo corpo. Sebbene tale fenomenologia segni profondamente la dottrina cristiana, permangono a tutt'oggi molti dubbi, non ancora chiariti, sulla loro genesi. Dalle prime manifestazioni ascritte a San Francesco d'Assisi, l'interpretazione di tali manifestazioni, ritenute come la trasposizione sulla carne delle ferite inferte a Gesù sulla croce, è sempre vissuta nel contrasto tra la venerazione e l'accusa di superstizione. Molti santi stigmatizzati hanno sperimentato forti sospetti ed isolamento, sottoposti ad un controllo attento.
La Chiesa cattolica non si è mai pronunciata definitivamente di fronte a queste manifestazioni limitandosi ad indagare singolarmente i soggetti che se ne dicevano portatori. Padre Agostino Gemelli, presidente dal 1937 al 1959 della Pontificia Accademia delle Scienze, asserì, nel contesto delle sue indagini su padre Pio, che San Francesco d'Assisi doveva essere considerato il solo stigmatizzato della storia cristiana, ovvero il solo in cui si potesse dimostrare un'origine divina di tali manifestazioni, pur non avendo alcuna prova scientifica e contraddicendo l'agiografia ecclesiastica. La Chiesa infatti riconosce apertamente vari stigmatizzati.
Alcune ricerche attribuiscono le stigmate a cause di origine isterica o collegate a disturbi dissociativi di identità, in particolare alla combinazione di costrizione alimentare, stati mentali dissociativi e di auto-mutilazione, nel contesto di un credo religioso. Secondo tali ricerche, anoressie nervose presenterebbero spesso casi di auto-mutilazione simili alle stigmate come parte di un rituale tipico di un disturbo ossessivo compulsivo. Una relazione tra fame e auto-mutilazione è stato segnalato tra i prigionieri di guerra e durante le carestie. Uno studio psicoanalitico di Teresa Neumann ha suggerito che le sue stimmate possano essere il risultato di sintomi post-traumatici di stress espressi tramite automutilazioni inconsce.
Nel suo "Stigmate: un fenomeno medievale in età moderna", Edward Harrison indica, in uno studio di casi contemporanei, di non aver trovato prove che le stigmate siano di origine soprannaturale. Egli afferma che alcuni soggetti si siano stigmatizzati nel tentativo di soffrire con Cristo, come una forma di pietà, ed altri accidentalmente, e che le loro manifestazioni sono state considerate erroneamente come stimmate. Harrison ha osservato che negli stigmatizzati il rapporto uomo-donna, che per molti secoli era stato dell'ordine di 7 a 1, era cambiato nel corso degli ultimi 100 anni in un rapporto di 5:4. La comparsa di stigmate è stata da lui correlata a momenti in cui storicamente la questione dell'autorità emergeva nella Chiesa. Inoltre ha affermato che solo nel secolo scorso sono stati stigmatizzati sacerdoti.
Dalle registrazioni dei disturbi fisici di San Francesco, il Dr. Edward Hartung ha affermato nel 1935 che questi erano attribuibili a problemi di salute che hanno afflitto il sant'uomo. Hartung credeva che egli avesse una malattia dell'occhio nota come tracoma, oltre alla malaria quartana. Quest'ultima patologia coinvolge fegato, milza e stomaco, e causa dolore intenso alla vittima. Una complicazione della malaria quartana è un'emorragia di sangue nella pelle che si verifica di solito simmetricamente, così che ogni mano e piede ne sono colpiti in ugual misura. Se questo fosse il caso di San Francesco, sarebbe stato afflitto da ecchimosi che quindi appaiono come una ferita aperta come quella di Cristo.
La storia odierna, e in particolar modo quella religiosa, ci presenta, nel corso dei secoli scorsi, numerosi soggetti ai quali si sarebbero manifestate le stigmate. Esse sono primariamente associate alla Chiesa cattolica, poiché molti santi stigmatizzati sono membri di ordini religiosi cattolici. Inoltre, studi recenti stimano che oltre l'80% dei santi stigmatizzati sono donne.
Alla fine dell'Ottocento un neurologo francese, Antoine Imbert-Gourbeyre, in uno studio analitico elencò 322 stigmatizzati, basandosi sugli Acta Sanctorum e sugli archivi ecclesiastici. Studi più recenti hanno aggiornato tale dato, portando il numero delle persone stigmatizzate a 400 circa, delle quali solamente un piccolo numero viene considerato Santo e risulta canonizzato.
Siamo abituati a vedere le stigmate come un fenomeno estatico che si localizza anatomicamente sui palmi e/o sui dorsi delle mani dei soggetti portatori. Tale posizione anatomica sembrerebbe storicamente scorretta, perché, in apparenza, una crocefissione in cui i chiodi fossero infissi sui palmi ed i dorsi delle mani avrebbe provocato una grande lacerazione nonché frantumazione delle ossa della mano: i tessuti molli e le ossa interessate, infatti, non sono in grado di reggere il peso del corpo umano. Si è osservato che sul polso, nella parte finale dell'ulna e del radio, in quella intercapedine che si collega alla mano, esiste un piccolo spazio, definito di Destot, attraverso il quale sarebbe estremamente semplice poter inserire un chiodo.
Queste due ossa, che formano i nostri avambracci, sono infatti disposte in modo da creare una intercapedine naturale attraverso la quale venivano conficcati i chiodi per le crocifissioni. I reperti storici ci dimostrano come nella Palestina romana tale locazione fosse l'unica attraverso la quale venivano fatti passare i chiodi di questa atroce condanna a morte; ogni resto umano ritrovato di persona sottoposta al supplizio presenta infatti delle lesioni e delle scheggiature proprio in corrispondenza di tali ossa. Verosimilmente (vera o falsa che sia) anche nella Santa Sindone custodita a Torino, al crocifisso si nota la fuoriuscita dei chiodi dalla parte posteriore dei polsi, tra l'ulna e il radio.
La stimolazione meccanica effettuata sul nervo posto nello spazio di Destot porterebbe inoltre ad una flessione del dito pollice sul palmo della mano, e infatti anche nell'immagine impressa nella Sindone il pollice non è visibile. Studi anatomici moderni hanno mostrato che i chiodi potevano essere infissi sulla mano, specificamente sulla parte superiore del palmo, con fuoriuscita dalla parte posteriore del polso, in una posizione tale da poter sopportare il peso di un corpo umano ed al contempo senza fratturare le ossa della mano.
Le stigmate sono un fenomeno che dipende dalla tradizione culturale di chi le porta. Non sono noti esempi di stigmatizzati non cristiani, per esempio. Si diffusero solo dopo San Francesco, primo stigmatizzato della storia, che le mostrò dal 1224. I segni dei chiodi nelle mani, inoltre, sono nelle posizioni in cui li raffigura l’iconografia tradizionale, ovvero al centro del palmo, e non – come pare si usasse invece all’epoca di Cristo – nel polso.
Non si è nemmeno sicuri di come esattamente il fenomeno insorgerebbe. Non si hanno casi attendibili in cui scienziati abbiano assistito alla comparsa delle stigmate in formazione, né sono mai state eseguite osservazioni rigorose e ininterrotte per stabilire se esse scomparivano naturalmente dopo un certo tempo.
È necessario ricordare che, tra le centinaia di casi di stigmate segnalati, la Chiesa ne ha accettati come veritieri molto pochi. Per la medicina le stigmate rientrano nel quadro di una manifestazione vistosa, chiamata porpora psicogenica (o sindrome di Gardner e Diamond), che compare in soggetti affetti da personalità isterica. L’isterico, per la sua suggestionabilità, può creare situazioni teatrali, esibizionistiche, volte ad attirare su di sé l’attenzione. In questa situazione persone cariche di fede nella passione del Cristo possono arrivare anche a produrre le stigmate. La porpora psicogenica è ben nota infatti anche a chi si interessa di medicina psicosomatica: la situazione inconscia può dare luogo a un gran numero di affezioni, compresa questa.
Il cerchio intorno a padre Pio aveva cominciato a stringersi fra giugno e luglio del 1920: poco dopo che era pervenuta al Sant’Uffizio la lettera- perizia di padre Gemelli sull’«uomo a ristretto campo di coscienza», «soggetto malato», mistico da clinica psichiatrica. Giurate nelle mani del vescovo di Foggia, monsignor Salvatore Bella, e da questi inoltrate, le testimonianze di due buoni cristiani della diocesi pugliese avevano proiettato sul corpo dolorante del cappuccino un’ombra sinistra. Più che profumo di mammole o di violette, odore di santità, dalla cella di padre Pio erano sembrati sprigionarsi effluvi di acidi e di veleni, odore di impostura.
Il primo documento portava in calce la firma del dottor Valentini Vista, che a Foggia era titolare di una farmacia nella centralissima piazza Lanza. Al vescovo, il professionista aveva riferito anzitutto le circostanze originarie del suo interesse per padre Pio. La tragica morte del fratello, occorsa il 28 settembre 1918. La speranza che il frate cappuccino, proprio in quei giorni trafitto dalle stigmate, potesse intercedere per l’anima del defunto. Il dottor Valentini Vista era poi venuto al dunque. Nella tarda estate del ’19, il pellegrinaggio a San Giovanni era stato compiuto da una sua cugina, la ventottenne Maria De Vito: «Giovane molto buona, brava e religiosa», lei stessa proprietaria di una farmacia. La donna si era trattenuta nel Gargano per un mese, condividendo con altre devote il quotidiano train de vie del santo vivo.
Il problema si era presentato al rientro in città della signorina De Vito: «Quando ella tornò a Foggia mi portò i saluti di Padre Pio e mi chiese a nome di lui e in stretto segreto dell’acido fenico puro dicendomi che serviva per Padre Pio, e mi presentò una bottiglietta della capacità di un cento grammi, bottiglietta datale da Padre Pio stesso, sulla quale era appiccicato un bollino col segno del veleno (cioè il teschietto di morte) e la quale bottiglietta io avrei dovuto riempire di acido fenico puro che, come si sa, è un veleno e brucia e caustica enormemente allorquando lo si adopera integralmente. A tale richiesta io pensai che quell’acido fenico adoperato così puro potesse servire a Padre Pio per procurarsi o irritarsi quelle piaghette alle mani».
A Foggia, voci sul ritrovamento di acido fenico nella cella di padre Pio avevano circolato già nella primavera di quel 1919, inducendo il professor Morrica a pubblicare sul Mattino di Napoli i propri dubbi di scienziato intorno alle presunte stigmate del cappuccino. Non fosse che per questo, il dottor Valentini Vista era rimasto particolarmente colpito dalla richiesta di acido fenico puro che il frate aveva affidato alla confidenza di Maria De Vito. Tuttavia, «trattandosi di Padre Pio», egli si era persuaso che la richiesta avesse motivazioni innocenti, e aveva consegnato alla cugina la bottiglia con l’acido. Ma la perplessità del farmacista era divenuta sospetto poche settimane dopo, quando il cappuccino di San Giovanni aveva trasmesso alla donna – di nuovo, sotto consegna del silenzio – una seconda richiesta: quattro grammi di veratrina.
Rivolgendosi a monsignor Bella, Valentini Vista illustrò la composizione chimica di quest’ultimo prodotto e insistette sul suo carattere fortemente caustico. «La veratrina è tale veleno che solo il medico può e deve vedere se sia il caso di prescriverla», spiegò il farmacista. A scopi terapeutici, la posologia indicata per la veratrina era compresa fra uno e cinque milligrammi per dose, sotto forma di pillole o mescolata a sciroppo. «Si parla dunque di milligrammi! La richiesta di Padre Pio fu invece di quattro grammi! ». E tale «quantità enorme trattandosi di un veleno», il frate aveva domandato «senza la giustificazione della ricetta medica relativa», e «con tanta segretezza»... A quel punto, Valentini Vista aveva ritenuto di dover condividere i propri dubbi con la cugina Maria, raccomandandole di non dare più seguito a qualsivoglia sollecitazione farmacologica di padre Pio. Durante il successivo anno e mezzo, il professionista non aveva comunicato a nessun altro il sospetto grave, gravissimo, che il frate si servisse dell’una o dell’altra sostanza irritante «per procurarsi o rendere più appariscenti le stigmate alle mani». Ma quando aveva avuto notizia dell’imminente trasferimento di monsignor Bella, destinato alla diocesi di Acireale, «per scrupolo di coscienza» e nell’«interesse della Chiesa» il farmacista si era deciso a riferirgli l’accaduto.
La seconda testimonianza fu giurata nelle mani del vescovo dalla cugina del dottor Valentini Vista, e risultò del tutto coerente con la prima. La signorina De Vito confermò di avere trascorso un mese intero a San Giovanni Rotondo, nell’estate del ’19. Alla vigilia della sua partenza, padre Pio l’aveva chiamata «in disparte» e le aveva parlato «con tutta segretezza», «imponendo lo stesso segreto a me in relazione anche agli stessi frati suoi confratelli del convento». Il cappuccino aveva consegnato a Maria una boccetta vuota, pregando di farla riempire con acido fenico puro e di rimandargliela indietro «a mezzo dello chauffeur che prestava servizio nell’autocarro passeggieri da Foggia a S. Giovanni». Quanto all’uso cui l’acido era destinato, padre Pio aveva detto che gli serviva «per la disinfezione delle siringhe occorrenti alle iniezioni che egli praticava ai novizi di cui era maestro ». La richiesta dei quattro grammi di veratrina le era giunta circa un mese dopo, per il tramite d’una penitente di ritorno da San Giovanni. Maria De Vito si era consultata con Valentini Vista, che le aveva suggerito di non mandare più nulla a padre Pio. E che le aveva raccomandato di non parlarne con nessuno, «potendo il nostro sospetto essere temerario ».
Temerario, il sospetto del bravo farmacista e della devota sua cugina? Non sembrò giudicarlo tale il vescovo di Foggia, che pensò bene di inoltrare al Sant’Uffizio le deposizioni di entrambi. D’altronde, un po’ tutte le gerarchie ecclesiastiche locali si mostravano scettiche sulla fama di santità di padre Pio. Se il ministro della provincia cappuccina, padre Pietro da Ischitella, metteva in guardia il ministro generale dal «fanatismo » e dall’«affarismo» dei sangiovannesi, l’arcivescovo di Manfredonia, monsignor Pasquale Gagliardi, rappresentava come totalmente fuori controllo la situazione della vita religiosa a San Giovanni Rotondo.
Da subito nella storia di padre Pio, i detrattori impiegarono quali capi d’accusa quelli che erano stati per secoli i due luoghi comuni di ogni polemica contro la falsa santità: il sesso e il lucro. E per quarant’anni dopo il 1920, il celestiale profumo intorno alla cella e al corpo di padre Pio riuscirà puzzo di zolfo al naso di quanti insisteranno sulle ricadute economiche o almanaccheranno sui risvolti carnali della sua esperienza carismatica. Ma nell’immediato, a fronte delle deposizioni di Maria De Vito e del dottor Valentini Vista, soprattutto urgente da chiarire dovette sembrare al Sant’Uffizio la questione delle stigmate. Tanto più che il vescovo di Foggia, inoltrando a Roma le due testimonianze giurate, aveva accluso alla corrispondenza un documento che lo storico del ventunesimo secolo non riesce a maneggiare – nell’archivio vaticano della Congregazione per la Dottrina della Fede – senza una punta d’emozione: il foglio sul quale padre Pio, forse timoroso di non poter comunicare a tu per tu con la signorina De Vito, aveva messo nero su bianco la richiesta di acido fenico. Allo sguardo inquisitivo dei presuli del Sant’Uffizio, era questo lo smoking gun, l’indizio lasciato dal piccolo chimico sul luogo del delitto. «Per Marietta De Vito, S.P.M.», padre Pio aveva scritto sulla busta. All’interno, un unico foglietto autografo, letterina molto più stringata di quelle che il cappuccino soleva scrivere alle sue figlie spirituali: «Carissima Maria, Gesù ti conforti sempre e ti benedica! Vengo a chiederti un favore. Ho bisogno di aver da duecento a trecento grammi di acido fenico puro per sterilizzare. Ti prego di spedirmela la domenica e farmela mandare dalle sorelle Fiorentino. Perdona il disturbo».
Se davvero padre Pio necessitava di acido fenico per disinfettare le siringhe con cui faceva iniezioni ai novizi, perché mai procedeva in maniera così obliqua, rinunciando a chiedere una semplice ricetta al medico dei cappuccini, trasmettendo l’ordine in segreto alla cugina di un farmacista amico, e coinvolgendo nell’affaire l’autista del servizio pullman tra Foggia e San Giovanni Rotondo? Ce n’era abbastanza per incuriosire un Sant’Uffizio che possiamo immaginare già sospettoso dopo avere messo agli atti la perizia di padre Gemelli. Di sicuro, i prelati della Suprema Congregazione non dubitarono dell’attendibilità delle testimonianze del dottor Valentini Vista e della signorina De Vito, così evidentemente suffragate dall’autografo di padre Pio. Agli atti del Sant’Uffizio figurava anche la trascrizione di una seconda lettera autografa del cappuccino a Maria De Vito, il cui poscritto corrispondeva esattamente al tenore della deposizione di quest’ultima: «Avrei bisogno di un 4 grammi di veratrina. Ti sarei molto grato, se me la procurassi costì, e me la mandassi con sollecitudine».
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